La nudità nella storia antica

La nudità

Il sostantivo «nudità» è quello che meglio designa la fisicità della figura umana, la sua realtà corporea, ma anche quella interiore (“mettere l’anima a nudo”, “mettersi a nudo”).
Infatti la nudità è da sempre a vario titolo oggetto di interesse, osservazione, studio e raffigurazione, iconica o figurativa come si direbbe in campo artistico, ma anche in ambito sociale e medico.

L’evoluzione e rappresentazione del concetto di nudità si sviluppano continuamente nella storia, nelle arti e nelle scienze, assumendo talvolta un ruolo importante nei riti magico-religiosi, per scopi decorativi o come indice di appartenenza ad un certo rango.
Nella storia umana la totale nudità accompagna la nascita dei primi esseri viventi, che per molto tempo si sono così reciprocamente osservati, realizzando in tal modo una primordiale visione di sé e dell’altro. Tale modalità di osservazione consentiva la valutazione di eventuali alterazioni del manto cutaneo, di anomalie del sembiante: da ciò nasce la diffusa convinzione che la Dermatologia sia stata la prima forma di Medicina
praticata dall’uomo.
In effetti la condizione di nudità era di per sé abituale nell’uomo primitivo, non ancora condizionato da credenze e consuetudini e ancor meno sottoposto a norme sociali e religiose, come invece è poi avvenuto nel corso dei secoli successivi.

Si delinea così la storia della nudità, certamente sempre modulata in tutte le Ere in base a esigenze biologiche, variazioni ambientali, abitudini sociali e atteggiamenti culturali.
Nel paradiso terrestre Adamo ed Eva vivono nudi fino a quando, con il compimento del peccato originale, prendono coscienza della differenza fra bene e male. La nudità quindi, dapprima simbolo di purezza e di candore, si tramuta nel suo contrario come fattore di tentazione e concupiscenza.

Tuttavia nelle religioni ebraiche e cristiane delle origini la nudità continua ad essere condizione di innocenza e purezza, quale nudità in senso spirituale. Gesù Cristo e i primi Cristiani sono sempre nudi nel rito del Battesimo, come pure nella Crocifissione.
Ma l’originario concetto della colpa commessa dai nostri progenitori e quindi della nudità, proibita perché contraria al pudore, è sempre presente nell’Antico Testamento. In particolare la malattia è considerata castigo divino perché conseguenza di un peccato e quindi impone che il malato, colpevole, venga visitato nudo dai sacerdoti e non dai medici profani.

Infatti nel Talmud (II e I secolo a.C.), si afferma che «gli esami delle malattie della pelle, le eruzioni e la lebbra non spettano al medico, bensì al sacerdote». La diagnosi viene riconnessa alla colpa e valutata in base alla sua entità. La terapia, esclusivo dono di Dio, prevede che il malato venga abbandonato al suo destino e cacciato nudo dalla comunità tribale. In sintesi Dio è sanità, malattia è punizione e il sacerdote è medico.
Questo primitivo comportamento durerà per molti secoli, creando un’enorme confusione dottrinale, e continui conflitti tra religione e scienza medica, fino all’Era Moderna.
Ma in molte altre culture antiche (ad esempio in quelle mesopotamica, assiro-babilonese, persiana, fenicia) resta presente l’ambivalenza della nudità costantemente sospesa fra natura-salute-bellezza da un lato, e malattia-colpa-impudicizia-umiliazione dall’altro.

Le più antiche testimonianze della condizione di nudità risalgono all’epoca preistorica, dalla quale ci giungono molti graffiti e incisioni rupestri presenti in diversi Paesi del mondo.
Particolarmente significativa è la vivace scena di caccia delle Grotte di Lascaux (Francia, 15.000 a.C.). Ma anche nelle primitive sculture di Venere, databili intorno al 10.000 a.C., sono ben visibili seni, ombelichi, genitali e fianchi larghi, quali elementi beneauguranti per la caccia, la guerra e soprattutto per la fecondità.

Ancora oggi alcune tribù africane e amazzoniche vivono nude o con un semplice laccio legato alla cintola; quelle della Nuova Guinea hanno come unico indumento baccelli di zucca quali foderi del pene come rituale o abbigliamento per la caccia, la guerra o altre attività quotidiane.

Non è ancora certa la data della prima vestizione del genere umano: secondo alcune ricerche antropologiche risalirebbe a circa 70.000 anni orsono.
Sappiamo che la specie umana nel corso della sua evoluzione ha gradualmente perso i peli e quindi ragionevolmente ha sempre più incrementato l’uso di vestiti per proteggere il corpo e la pelle dai fattori esterni. L’antropologia parla di pelli di animali, rami e foglie intrecciati per proteggersi da freddo, caldo, pioggia etc.

Ötzi, la famosa mummia di Simulaun miracolosamente conservata intatta dalle nevi perenni delle Alpi della Val Venosta per circa 7000 anni, portava con sé un ampio corredo costituito da calzari, mantello e zaino in fibre vegetali, arco, faretra, frecce, pugnale di selce e ascia di rame, una riserva di semi e frutti, un contenitore di betulla con carbonella per il freddo e persino una scorta di Piptoporus betulinus, fungo che si sviluppa sulla corteccia della betulla, dalle scarsissime proprietà nutritive ma dotato di principi attivi antibiotici ed emostatici. Segno di un grande interesse per la protezione e la cura del corpo e della pelle fin dalle epoche più remote.

Nell’antico Egitto i personaggi più importanti sono raffigurati nudi, o al massimo con un gonnellino sui fianchi e nelle rappresentazioni mediche o chirurgiche i pazienti appaiono completamente nudi (ad esempio nella Tomba di Anthmahor, 2400-2300 a.C.).
Anche Geb il Dio della Terra e Nut la Dea del Cielo sono raffigurati nudi. La Regina Cleopatra, simbolo del ruolo e dell’indipendenza della donna, completamente nuda si immerge nelle acque e nei fanghi del Mar Morto per la cura della sua salute e bellezza. Ma sempre nell’Antico Egitto, contradditoriamente, la nudità viene imposta anche ai nemici sconfitti e agli schiavi, che vengono esposti nudi per sottolineare il loro stato di inferiorità politica e sociale. E questo comportamento ha purtroppo poi lungo corso nella storia umana, fino ai campi di concentramento nazisti.

Nella cultura fenicio-punica sono diffuse statuette fittili di uomini e donne nudi con genitali ben evidenti per uno specifico riferimento alla fertilità e alla buona sorte. Ed anche i soldati e i nuotatori sono abitualmente riprodotti nudi a sottolineare la loro prestanza e buona salute.

Nella mitologia greca molti Dei (Apollo, Afrodite/Venere, Diana) sono effigiati nudi per sottolineare il loro ruolo e l’importanza del loro corpo. Nella cultura greca la nudità è considerata simbolo di purezza e di distinzione sociale e perciò esercitata ufficialmente a scopo rituale, atletico, militare e medico-estetico. Come racconta Omero nell’Iliade, gli esseri umani devono presentarsi completamente spogliati di fronte ai giudici, anch’essi nudi, perché entrambi devono essere liberi da ogni riferimento di casta sociale per un miglior confronto fra anima e anima.

Nell’antica Grecia delle origini, ovvero prima della Grecia classica o “di Pericle”, sorgeva la civiltà Minoica nelle isole di Creta e di Thera, i cui abitanti sono di regola raffigurati nudi: eloquenti testimonianze di queste abitudini L’acrobata di Cnosso a Creta e I pugilatori a Thera. Anche a Sparta la nudità era abituale, specie durante gli esercizi fisici e in particolare nei bagni pubblici, che erano anche luoghi dove praticare attività fisica (ginnastica dal greco gymnos= nudo, gymnasium=luogo per essere nudi) e in particolare per meglio esporre la cute al sole, ai venti ma ancor più al contatto benefico con le acque termali. Nella Grecia classica la nudità sottolinea l’importanza del corpo e dello spirito, dell’energia fisica e spirituale. Non a caso rappresenta una condizione di magnificazione dell’atleta, rappresentato per lo più nudo o raramente con il perizoma. E ciò specie in occasione dei Giochi Olimpici, importantissimo evento ginnico, sociale e politico che addirittura impone una tregua in ogni conflitto bellico.

Persino le comuni e assai diffuse statuette votive devozionali raffigurano ragazzi completamente nudi. Questo perché la nudità è il tratto distintivo della scultura greca, volta a celebrare la bellezza ed intesa come proporzione delle parti rispetto all’intero.
Capolavoro di tale «euritmia anatomica» sono i Bronzi di Riace. Quindi si può affermare che in Grecia si intendeva la nudità come simbolo di bellezza, libertà e salute.

Il principio ispiratore di tutto l’operato del padre della Medicina, Ippocrate (460-377 a.C.), «observatio et ratio», prevede un’attenta visita al malato completamente nudo per meglio rilevare, indagare e curare le preziose “spie cutanee”, spesso espressioni esterne di oscure patologie interne. Dalla sua grande esperienza e riflessione scaturiscono numerose denominazioni di varie malattie, molte ancora oggi attuali.
Ippocrate separa la sua medicina razionale da quella sacra, ovvero religiosa o teurgica.
Come molti altri grandi scienziati, si circonda di estimatori ed allievi con i quali fonda la sua Scuola Medica di Kos, in linea con le precedenti Scuole Mediche di Alcmeone di Crotone (V sec. a.C.) che nel suo trattato De natura accenna anche a malattie della cute, di Empedocle di Agrigento (490-430 a.C.) e di Filistione di Locri che parla già di «respirazione cutanea». Areteo di Cappadocia (81-131 d.C.) per primo individua il Diabete e osserva che sulla pelle di tutti i malati compare frequentemente una desquamazione, indice di dermatite seborroica, psoriasi etc.

L’annessione della Grecia da parte di Roma (146 a.C.) provocò una massiccia penetrazione di usi, costumi e arti nel mondo romano, anche nelle rappresentazioni teatrali: soprattutto con Plauto (Tito Maccio Plauto (250 circa-184 a.C.) e la sua nudatio mimarum, ovvero un vero e proprio spogliarello finale dei mimi che accompagnavano la recita.
Lo storico greco Polibio (206-118 a.C.), studioso della nascita della Repubblica romana,
scrive che i Celti combattevano nudi e parla di «uno spettacolo terribile…tutti uomini dal
fisico splendido e nel fiore degli anni
» (Storie II-28). Da qui anche la nudità più o meno
completa dei lottatori romani delle origini.

Anche fra i proto-Cristiani è presente l’ambivalenza della nudità fra innocenza e vergogna.
Secondo la religione cristiana la nudità è però intesa come fragilità esistenziale e quindi anche come condizione assistenziale: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito…» (Matteo 25, 35-36).
Poi nell’Alto Medioevo si diffonde e si rafforza un rifiuto del corpo in quanto nemico dello spirito e di conseguenza si instaura una condanna della nudità, ma nel Basso Medioevo con l’avvento Federico II di Svevia (1194-1250) la prospettiva si capovolge nuovamente e la cura del corpo e della pelle vengono rivalutate.

E lungo una storia di “corsi e ricorsi” altalenanti fra esaltazione e condanna, riprese e abbandoni, la nudità nell’Illuminismo torna ad essere considerata un tabù e nell’epoca vittoriana addirittura oscena e indecente. Fino a quando un rinnovato interesse per la cultura greca, e la sua “mitizzazione” della nudità, propongono il nudismo collegato con il Naturismo. E’ la rivoluzionaria Freikörperkultur (cultura del corpo libero) degli inizi del ‘900, che si incrementa e si sviluppa in tutto il mondo, soprattutto occidentale, dopo la seconda guerra mondiale.
In conclusione, la complessa e lunga storia evolutiva della nudità è sempre stata ciclica, e il suo futuro rimane aperto: sta anche, anzi soprattutto a noi naturisti fare in modo che sia favorevole.