di Margherita Seppi, Vice News (news.vice.com)

La FKK nasce in Germania e in Svizzera all’inizio del 1900 come parte della Lebensreform. Proponeva un ritorno alla natura e ad uno stile di vita etico e sano, venivano incoraggiati il vegetarianismo, lo yoga, la meditazione, lo sport, la medicina alternativa, si rinunciava ad alcool e tabacco. Fra le pratiche emergeva anche il nudismo, considerato come un mezzo per ristabilire quel contatto perso con l’universo. Veniva celebrato, ad esempio, il rapporto con il sole, attraverso rituali e danze effettuati in completa nudità, in modo da poter assorbire l’energia e il calore della luce.
È così che il corpo assume una dimensione centrale nella Lebensreform, ed è così che nasce la Freikörperkultur: come celebrazione del corpo e della sua naturalità.
Faccio notare subito due cose. La prima è come la FKK non nasca in relazione con il sesso. Al contrario, i naturisti credevano che la continua esposizione al corpo nudo distruggesse ogni carica sessuale, volevano normalizzare la sessualità depurandola dai tabù cui è associata. Se avete qualche familiarità con il termine FKK, però, probabilmente lo avete già automaticamente collegato alla scena dei sex club tedeschi, ad esempio l’Artemis di Berlino, uno dei più grandi bordelli della Germania.
Si tratta di fatto di un’appropriazione indebita del termine, avvenuta in questi ultimi anni. Il marchio – non registrato – nel corso del tempo è stato via via sempre più di frequente sfruttato per la promozione di offerte a sfondo erotico, fino a venir legato indissolubilmente alla sfera dell’intrattenimento sessuale. Ma in realtà le origini e la storia della FKK sono completamente diverse: il corpo era il focus di una filosofia politica e di vita che perseguiva l’armonia con la natura e gli altri esseri umani, e pertanto doveva essere curato e accettato nella sua normalità.
Durante la Repubblica di Weimar, la Freikörperkultur irrompe: le associazioni si uniscono in leghe, iniziano ad organizzare eventi, manifestazioni e a collaborare anche a livello sovranazionale. Alla fine della Repubblica i membri delle associazioni naturiste in Germania sono circa 100 mila.
Poi i tempi iniziano a cambiare, e irrompe il nazismo. Il rapporto del nazismo con la FKK rimane ambivalente: da un lato l’ideale del corpo perfetto, sano, plasmato sull’ideale ariano, è un elemento centrale della filosofia nazionalsocialista; dall’altra l’esposizione del corpo nudo ha in sé chiari elementi sovversivi e liberali, di cui il regime fisiologicamente diffida (nota Naturistitalia: infatti il regime nazista chiuse i
circoli e le associazioni naturiste, vietandone l’attività).
Gli anni post bellici, attraverso una serie di regolamenti, creano lentamente le basi legali oltre che culturali per quella che sarà l’epoca d’oro della Freikörperkultur. Si avrà una rinascita massiccia di associazioni e strutture naturiste. Nel 1989 cade il Muro, due mondi si incontrano e si urtano, dalla collisione nascono nuovi modi di vivere insieme, nuove norme, nuove vite. In tutto il trambusto, anche la Freikörperkultur è oggetto di disputa.
In fondo i cugini dell’Ovest non sono poi così familiari con il nudo come i cugini dell’Est. Il risultato è un aumento degli spazi di balneazione per nudisti non ufficiali ma tollerate su laghi, spiagge e fiumi, e alcune anche nei parchi all’interno delle città. In sostanza la nuova regola è questa: chi vuole spogliarsi, si spogli, gli altrisfoggino pure il segno del costume.
Durante il mio processo di ricerca ho avuto modo di visitare tre circoli FKK a Berlino e di intervistare il responsabile dei rapporti con la stampa del Landesverbandes Freikörperkultur Berlin–Brandenburg, ovvero la confederazione a cui le singole associazioni FKK fanno riferimento. Ne è emerso un contesto multiforme, dove varie correnti di cambiamento si intrecciano e lasciano intravedere uno sviluppo futuro non facilmente leggibile.

Il primo circolo che ho visitato è l’Adolf Koch Verein.
Parlo con un ragazzo, gli chiedo da quanto tempo faccia parte del circolo e cosa pensi della FKK a Berlino. Lui è felice di parlarmi. “Abbiamo preso in gestione l’Adolf Koch un paio di anni fa. Praticamente lo abbiamo salvato, non aveva più iscritti e i membri più anziani – la maggior parte – stavano letteralmente morendo uno ad uno. I sei circoli più famosi di Berlino hanno perso un quarto dei propri membri negli ultimi dieci anni. Noi ora siamo in 70, quasi tutti maschi. Abbiamo iniziato il progetto in seno alla comunità gay ma non vogliamo assolutamente limitarlo a questo, stiamo cercando di coinvolgere altre persone, giovani soprattutto, ma non è facile. Ad esempio, le ragazze non si sentono a proprio agio quando vedono che tutti sono uomini”.
Così come l’Adolf Koch, anche il Fin For Fun, altra associazione del centro, si è trasformata in un club gay friendly.
La situazione è completamente diversa se dal centro ci si sposta più in periferia, in quei circoli FKK che possiedono un appezzamento di terra, il Land, sfruttato per attività sportive all’aperto.
Il Verein Berlin Südwest , ad esempio. Il Südwest, fondato nel 1922, è attualmente il più grande circolo del Brandeburgo con 1400 membri e possiede 40.000 metri quadrati di terreno. I membri si dividono in aventi diritto di usufruire del Land, e membri non aventi il diritto, i quali vogliono solamente praticare uno sport e usano il club a tal fine.
In linea generale, tutti i club FKK con del terreno a disposizione funzionano in questo modo. Esistono poi delle regole di condotta interne riguardo, ad esempio, quanto si debba essere rigorosi nei confronti della nudità, che variano da circolo a circolo e vengono decise dal direttivo o in assemblea. Queste regole possono spingersi fino alla definizione dei tempi di attività e quelli di riposo. Insomma, i ritmi possono diventare parecchio austeri.
Dopo tre mail mandate a vuoto e un paio di telefonate che non ricevono risposta, decido di andare al Verein Südwest di persona.
Scendo dalla S-Bahn da qualche parte a Steglitz, cammino per una decina di minuti, mi trovo davanti a un cancello. Suono. Nessun segno di vita. Suono di nuovo. Qualcuno apre. La strada costeggia un edificio enorme che per il momento decido di ignorare, nel patio due uomini nudi piuttosto anziani se la chiacchierano bevendo vino, mi guardano dubbiosi ma io sorrido in modo rassicurante e passo avanti. Arrivo al vero e proprio Land: è enorme. Ci sono tavoli da Tischtennis, una piscina grandissima, delle altalene, altri giochi per bambini, delle casette, c’è tanto tanto spazio.
Sono un po’ in estasi. Penso alle persone che hanno vissuto qui gli ultimi cent’anni, a quante decisioni insieme abbiano preso, a quanto forte possa essere il legame che hanno avuto l’uno con l’altro, penso al loro amore per lo sport e per la natura, alle tradizioni che hanno tramandato e alla stravaganza di questa usanza della nudità. Penso che quelli ancora vivi sono vecchi e non sono soli. In fondo non mi sorprende che vogliano rimanere chiusi in loro stessi; esiste un pezzo di mondo che val la pena di lasciar entrare, a rischio di rovinare questa pace?
Quando ne ho abbastanza di verde mi incammino verso l’edificio. L’interno è
labirintico. Prima di incontrare qualcuno passo per la sauna, la mensa, il bar, di nuovo la sauna, incappo negli spogliatoi, faccio su e giù quattro o cinque rampe di scale, infine un signore con il cappello mi accompagna agli uffici. Bitte, dice. Danke, rispondo, poco convinta. C’è un uomo dietro la scrivania che più che un essere umano sembra un manico di scopa, mi guarda come fossi un chewing gum che si è trovato sotto la scarpa.
Io schiaccio bene in fondo ogni insicurezza e mi presento. Lui non lo fa. I successivi cinque minuti – perché di più non resisto – sono una conversazione a senso unico in cui io faccio delle domande e lui risponde a monosillabi in un tedesco che spesso non riesco ad afferrare. Non riporto il contenuto perché, beh, non esiste nessun contenuto. Lascio il circolo con sentimenti contraddittori. Da un lato mi affascina l’idea di questi luoghi bloccati nel tempo, con una forte identità, che vanno avanti senza compromessi.
Dall’altra colgo il forte carattere elitario e conservatore della FKK, e un’indisponibilità al dialogo che mi lascia scettica.
Un esempio, però, non è abbastanza per trarre delle conclusioni, quindi un paio di settimane più tardi visito un altro circolo, l’ Helios , fondato nel 1954, con 19.000 metri quadrati di terra a disposizione. Adorerò l’Helios sotto ogni punto di vista.
Arrivo aspettandomi di essere liquidata nuovamente alla bell’e meglio, e infatti le cose non cominciano benissimo. Mi accoglie una donna sui sessanta che mi squadra da testa a piedi tre volte prima di giudicarmi degna di un’intervista. “Aspetti di fuori, dobbiamo discutere di qualcosa di importante – leggasi tra le righe, più importante di me – e poi possiamo parlare”. Mentre aspetto mi faccio un giro nel Land, più piccolo di quello del Südwest, ma nella compattezza anche meglio organizzato. Vedo una piscina, un campo da pallavolo, dei tavoli da ping pong, poi una distesa piatta di prato. Vari individui più o meno nudi passeggiano beati in un clima da pacche sulle spalle.
La donna, Barbara Hinz, amministratrice del circolo, arriva dopo una quindicina di minuti con lo sguardo severo. Prima che io emetta qualsiasi suono, Barbara precisa subito che loro non hanno nulla a che vedere con un sex club. Apparentemente sono tanti quelli che approdano qui sviati dall’uso impreciso del termine FKK. Ma io sull’argomento sono informata, mettendomi in modalità esame universitario sfoggio qualche nozione e lei apprezza la preparazione.
Stabilito un territorio di rispetto reciproco la conversazione procede fluida, lei mi racconta un po’di storia del naturismo, che noi sappiamo già, poi si sofferma sulla condizione attuale della Freikörperkultur e sulle dinamiche interne ai circoli.
“E’ vero che negli ultimi anni c’è stata una crisi, ma ultimamente stiamo ricevendo più richieste di iscrizione. Uno dei problemi più grandi che ci ritroviamo ad affrontare riguarda l’atteggiamento dei ragazzini in pubertà. Vengono qui con le famiglie ma non vogliono spogliarsi. Da un lato si vergognano, dall’altro è una questione di moda, da un altro ancora vogliono mostrarsi indipendenti. Ma è interessante come ad un certo punto il trend si rovesci: quegli stessi ragazzini che da principio rifiutavano le nostre regole,
tornano quando hanno messo su famiglia. Ciò dipende anche molto da come il singolo club è organizzato: noi siamo piuttosto rilassati, non abbiamo un modello rigido di comportamento, la nudità non è un obbligo quanto una possibilità. Se mette a disagio, non viene imposta. Esistono però altri circoli dove i membri, specialmente i più anziani, sono inflessibili: chi rimane vestito viene cacciato”.
Barbara va avanti parlandomi dell’offerta sportiva, poi racconta come sia importante lo spirito di comunità che tiene legata l’associazione. Ora sorride molto. Quando ci congediamo io ho già deciso: dopo i sessanta, se ancora sarò viva e a Berlino, diventerò membro dell’Helios. Già mi vedo, su quella sdraio là in fondo, a sfoggiare le mie grinze al sole con un boccale di birra fredda in mano.
La Hinz mi mette in contatto con Christian Utecht, il responsabile dei rapporti con la stampa della Confederazione Freikörperkultur Berlin–Brandenburg. Ora la questione chepiù mi preme approfondire è questa: al centro della filosofia della FKK, oggi, ci sono due elementi essenziali: lo sport e la famiglia. Ora, il concetto di famiglia negli ultimi decenni ha subito profonde trasformazioni, ma io ho l’impressione che in seno alla FKK sia rimasto quello classico: uomo, donna e bambini.
Chiedo a Utecht: “Dato il momento di difficoltà in cui la FKK si trova, non sarebbe forse una sfida per il futuro allargare il concetto di famiglia supportato ed espandere il bacino dei possibili aderenti, dando così un’immagine più moderna e di apertura verso l’esterno, invece che di chiusura verso se stessi?”
Secondo Utecht “L’idea di famiglia alla base della FKK non è di per sé esclusiva:
famiglia sono due adulti, o un adulto, con dei bambini. Vale la pena ricordare come l’educazione dei bambini sia sempre stata fondamentale nella Freikörperkultur, pensiamo al metodo Adolf Koch, quindi non li possiamo tagliare fuori dal concetto di famiglia. Quello che accade nei circoli FKK non è altro che uno specchio della società: non esistono ancora molte famiglie gay, quindi la loro rappresentanza nei circoli è minoritaria”.
Chiedo poi di dare un’interpretazione a questo momento di crisi. “Si tratta
semplicemente di un trend. Oggi esiste più pudore nei confronti della nudità, viene automaticamente associata al sesso, inoltre politicamente essa ha perso di significato. Molti bambini cresciuti nella DDR hanno addirittura un rigetto: avevano l’obbligo di stare nudi e lo hanno vissuto come un’ingiusta imposizione. Nell’ultimo paio d’anni, però, pare che il trend si sia nuovamente rovesciato. Ci sono più iscritti, c’è un nuovo entusiasmo. Vediamo dove porterà”.
Da quanto emerso dalla ricerca, notiamo come nella Freikörperkultur, oggi e per lo meno a Berlino, esistano due principali correnti quasi opposte: da un lato alcuni club sono stati salvati dall’estinzione dalla comunità gay, a prezzo forse di snaturare le loro fondamenta. Dall’altro i circoli classici, nonostante qualche segno di apertura, rimangono isolati e bloccati nel passato, stentando a sfruttare i moderni mezzi di comunicazione che oggi la tecnologia mette a disposizione per guadagnare charme.
Quanti di voi sapevano della loro esistenza? Questa esclusività, però, è anche un metodo di preservazione delle caratteristiche originali della FKK.
Ciò che fa pensare che la Freikörperkultur abbia buone possibilità di ripresa è la nuova spinta comunitaria che ha investito la società. Più i fallimenti di capitalismo e individualismo vengono alla luce, più gli esseri umani si ridirigono verso forme di associazionismo, cercano nuova solidarietà e creano nuovo significato condiviso. La FKK dovrebbe trovare il modo di sfruttare questo trend. In fondo, una crisi – dal greco krino: separare, cernere e, in senso più lato, discernere, giudicare, valutare – lungi dall’essere un concetto negativo, ha già in sé la possibilità del proprio superamento.